Percorso delle ville
(Ca’ Erizzo - Villa Bragadin-Priuli-Soranzo-Petrobelli - Villa Tondello e Villa Capodaglio - Villa Grimani – Villa Zaborra -il Catajo - la Mincana)
L’insieme delle ville venete costituisce oggi una delle immagini turistiche della regione, richiamando la dolce vita della “villeggiatura” dell’aristocrazia veneziana nel ‘700, raccontata anche nelle pagine di Carlo Goldoni, ma in realtà la Villa è il simbolo dell’espansione veneziana in terraferma, iniziata già nel XV secolo. Con l’avanzata ottomana e la scoperta dell’America, infatti, Venezia perse quell’importanza che le proveniva dall’essere la padrona del Mediterraneo. I Turchi le sottrassero le isole che fino ad allora erano state la dispensa della città e le nuove vie commerciali, inaugurate da Colombo, le tolsero buona parte della sua ricchezza. Venezia da “Stato da Mar” dovette farsi “de téra” per trovare le risorse e andare avanti. E Venezia si espanse, espropriando e acquistando terreni, trasformandoli, anche grazie a un intelligente governo delle acque, e imponendo la pax veneziana in quelle terre per secoli sconvolte dalle guerre tra le signorie, come quelle tra Carraresi e Scaligeri. Venezia costruì presidi, aziende, abitazioni. Le ville furono l’emblema della riorganizzazione della potenza veneziana, l’avamposto della trasformazione del territorio. Se per tutto il Medioevo i centri del potere erano stati i monasteri e i castelli, con l’arrivo della Serenissima lo divennero le ville. Le prime sono in parte rimaneggiamenti di antiche rocche e fortini, ma poi nel tempo la villa andrà a consolidare anche una propria fisionomia assolvendo a un doppio compito: quello di centro dell’organizzazione del lavoro nelle grandi campagne e luogo di rappresentanza e di svago, adatto al lignaggio del proprietario. Già alla fine del Cinquecento erano innumerevoli le ville che si ergevano nella campagna veneta; le ricche famiglie della nobiltà veneziana, gareggiando tra loro, avevano commissionato ai geniali architetti dell’epoca la costruzione delle loro dimore estive. Lasciando temporaneamente i palazzi di Venezia, le famiglie patrizie si trasferivano in incantevoli ed armoniosi edifici allietati da fantasiosi cicli di affreschi e circondati da giardini simmetrici, vasti prati e frutteti. Anche Due Carrare, e il suo territorio, conservano testimonianze importanti di questa stagione, segno che il comune mantenne la sua importanza anche dopo il periodo dei Da Carrara.
Road map
Molte delle ville indicate dal percorso sono private e quindi non sono visitabili, se non esternamente; tuttavia è solo attraverso queste che è possibile conoscere la storia di Due Carrare in quei secoli racchiusi tra la fine della signoria Carrarese, agli inizi del XV secolo, e il Settecento. Un’epoca dominata dalla presenza delle famiglie dell’aristocrazia veneziana e conclusasi solo con la fine della Repubblica Serenissima nel 1797. Quasi quattro secoli di storia che ripercorreremo partendo da Ca’ Erizzo, appena fuori dal centro abitato, per imboccare l’omonima via e dirigersi verso la Sp17 che ci condurrà fino al centro del Paese. Superata l’Abbazia di Santo Stefano teniamo la destra, sempre sulla Sp17 fino a raggiungere la grande rotatoria e svoltare subito su via Roma dove, proprio all’incrocio con la Sp9, sorge Villa Bragadin-Priuli-Soranzo-Petrobelli: un tempo sede del castello Carrarese e della sua gastaldia, una struttura difensiva, residenziale e agricola che si estendeva fino alle vicine ville Capodaglio e Priuli. Per raggiungerle, da Villa Bragadin-Priuli-Soranzo-Petrobelli, svoltiamo a destra per rimanere su via Roma e, successivamente, imboccare la Sp9 al vicino incrocio. Villa Capodaglio la troveremo appena dopo aver percorso qualche metro e sempre nei pressi troveremo anche Villa Tondello. La meta successiva è Pontemanco, che incontreremo percorrendo ancora la Sp9 nella stessa direzione. Entrando da via Pontemanco raggiungeremo il cuore del piccolo borgo medievale dominato dai vecchi mulini e da Villa Grimani. Sempre percorrendo via Pontemanco usciremo dall’altra parte del paese e raggiunta la rotatoria, che interseca la Sp9, procederemo dritti sempre sulla stessa via fino ad intersecare via Figaroli. Percorreremo quest’ultima per un bel pezzo, fino ad incrociare la rotatoria da cui la strada cambia nome in via San Pelagio. Proseguendo sempre dritti su questa via, e superato il ponte sull’autostrada A13, sulla sinistra incroceremo Villa Zaborra, detta anche Castello di San Pelagio, sede del Museo del Volo. Proseguendo sulla stessa strada arriveremo alla località Mezzavia dove attraverseremo la SS16 e inforcheremo il ponte che ci condurrà sulla sponda sinistra del Canale Battaglia. Oltrepassato il ponte, svolteremo subito a sinistra e, rimanendo sulla sommità arginale, raggiungeremo il Catajo. Proseguiremo il nostro percorso attraversando il ponte, che si trova davanti al grande portone di villa Obizzi, per svoltare a sinistra, sulla Ss16 e, percorso qualche centinaio di metri, svolteremo a destra su via Mincana (Sp9) dove, dopo pochi metri, incroceremo le indicazioni per villa La Mincana. La dimora che fu dei Dolfin, infatti, conserva un bel viale alberato che dalla strada provinciale porta fino al porta di ingresso della signorile dimora e alle sue pertinenze. Per ritornare nel centro di Due Carrare basterà riprendere la Sp9 e, raggiunta la grande rotatoria che segna l’inizio del centro cittadino, svoltare a destra per inforcare la Sp17. Da qui in poi ripercorreremo al contrario la strada provinciale, ripassando a fianco dell’abbazia di Santo Stefano, fino a Ca’ Erizzo dalla quale siamo partiti.
Siti di interesse toccati dal percorso:
Ca’ Erizzo, tra i canali Biancolino e Vigenzone
Ca’ Erizzo sorge tra i canali Biancolino e Vigenzone. Nata come centro dell’organizzazione del lavoro in campagna, dopo più di cinque secoli mantiene evidenti gli elementi del suo lontano passato. Attorno al corpo della villa, da cui spicca un grazioso loggiato, dal quale si gode il panorama splendido che comprende i colli e i monti in lontananza, sorge un caratteristico giardino all'italiana con alberi da frutto, fiori ed erbe profumate.
Villa Bragadin-Priuli-Soranzo-Petrobelli, sontuosa firma dello Scamozzi
Sebbene caratterizzata da un aspetto disadorno e in parte alterato da interventi settecenteschi, la villa è stata recentemente attribuita al progetto di Vincenzo Scamozzi. A richiamare qui la figura del grande architetto, che con il Palladio condivise la scena dell’architettura europea del XVI secolo, fu proprio la famiglia committente: i Priuli, che incaricarono lo stesso Scamozzi della realizzazione delle due ville Priuli a Treville, nel Trevigiano, e San Germano dei Berici, Vicenza, e l’omonimo palazzo a Padova. Le strutture infatti appaiono tutte caratterizzate dal medesimo linguaggio architettonico, incentrato in un maggiore rigore, rispetto a Palladio, e ad una razionalità che fu molto apprezzata nel suo tempo.
Villa Capodaglio e Villa Tondello, da castello ad aristocratica dimora
Le due aristocratiche residenze condividono la stessa storia, a partire dalle origini. Entrambe poggiano le loro mura su un nucleo preesistente, in cui non è difficile riconoscere alcuni elementi che furono dell’antico castello dei Da Carrara. Infatti, alcuni possenti pilastri inglobati all’interno dei muri perimetrali di Villa Capodaglio, i lacerti di un’antica torre a Villa Tondello e la presenza di feritoie, nei muri di entrambe, rappresentano probabilmente quanto rimane dell’antico maniero che rappresentò l’età dell’oro di Due Carrare. La storia del territorio infatti è indissolubilmente legata all’epopea della famiglia che dal 1318 fu alla guida della città di Padova. La fine del casato nei primi anni del XV secolo coincise con l’espansione di Venezia in terraferma, perennemente in lotta con i Da Carrara proprio per il controllo del territorio. Una nuova stagione che diede avvio ad una nuova organizzazione del territorio sia in termini di riassetto della campagna che di funzionalità delle dimore. All’indomani della fine della signoria padovana i loro beni vennero venduti, per volontà della Serenissima, all’incanto dal podestà e capitano di Padova al nobile veneziano Marino Bragadin, il quale iniziò la completa ristrutturazione del castello non certo per damnatio memoriae della casata padovana, che l’aveva avuta nelle sue proprietà fino ad allora, ma per rispondere alle nuove necessità dell’aristocrazia marciana, ossia lo sfruttamento della campagna. Erano quelli gli anni in cui i nobili veneziani cercarono nella terra quella ricchezza che i turchi avevano iniziato a sottrare loro nel mare. Una ricchezza che provenne, appunto, dalla riorganizzazione degli estesi latifondi e che avevano nelle ville il centro del controllo. Sia Villa Capodaglio che Villa Tondello rispondono perfettamente alla tipologia della corte domenicale, con l’abitazione signorile ben in vista, anche per assolvere agli scopi di rappresentanza che l’aristocrazia veneziana non cessò mai di ostentare, attorniata di quelle pertinenze fondamentali all’attività rustica: barchesse, stalle, granai, piccole casette destinate all’alloggio dei contadini (a villa Capodaglio esiste ancora il forno a legna che servì la piccola comunità), giardino e brolo, ossia lo spazio agricolo destinato agli alberi da frutta e alle vigne, più pregiate, per le colture destinate alla casa padronale. Le due ville passarono nel corso del XVII secolo dai Bragadin ai Sanudo e continuarono a rimanere vitali per tutto il Settecento, quando iniziarono ad essere usate anche come dimore estive per la “villeggiatura e il belvedere”. A questi due secoli risalgono gli ultimi interventi apportati alle strutture signorili come l’innalzamento a tre piani di parte di Villa Capodaglio e gli interventi al mezzanino di Villa Tondello, con l’apertura di nuove ampie finestre e la realizzazione del raffinato portale che collega la scala nobile con la sala di rappresentanza. Con l’Ottocento iniziò, invece, il progressivo decadimento delle dimore e delle pertinenze, i locali iniziarono a non essere più adibiti alla loro storica funzione, tanto che nel ‘900 alcuni ambienti di Villa Tondello vennero, addirittura, adibiti a stalla. Oggi Villa Capodaglio è una moderna azienda agricola e negli spazi che furono del castello carrarese possono essere degustati i preziosi vini che costituiscono l’orgoglio della nuova tenuta. Qui, infatti, come a villa Tondello, strutture antiche e moderne continuano a lasciarsi leggere, testimoniando che la storia altro non è che la sedimentazione delle epoche e del lavoro dell’uomo.
Villa Grimani a Pontemanco, centro di un borgo proto industriale
Per tutto il Medioevo il piccolo borgo di Pontemanco fu un vitale centro sviluppatosi attorno delle attività produttive, che potremmo definire proto-industriali, legate all’energia ottenuta da un salto d’acqua di appena tre metri del canale Biancolino. La forza motrice dell’acqua, infatti, permise l’insediamento di mulini per la macinazione delle granaglie e lo stesso alveo del canale permetteva un’agile via fluviale per i trasporti. Tali prerogative rimasero importanti anche nella stagione successiva, caratterizzata dalla progressiva presenza dell’aristocrazia veneziana in campagna. E verso la fine del XVIII secolo fu la famiglia Grimani ad ottenere la concessione di sfruttamento delle acque del piccolo canale, con l’intera filiera connessa. E’ in questo periodo che venne a stabilizzarsi l’impianto urbanistico del piccolo borgo e i Grimani ne furono protagonisti, contribuendo alla realizzazione della rete strutturale e di servizio dell’attività economica, come il completamento delle casette degli operai, dei maniscalchi, dei cavallanti, dei barcaioli ed ampliando la principale abitazione del borgo, che era stata dei Pasqualigo, in Villa Grimani. La dimora mantenne le forme classiche della casa padronale veneta: su due piani, a schema planimetrico, tripartito con salone passante e quattro stanze ai lati. Una villa rustica, di campagna, ma che nella trifora balconata, che ancora caratterizza la facciata, conserva un legame stretto con il Canal Grande. Villa Grimani è stata anche l’abitazione del noto compositore e critico musicale padovano Carlo De Pirro.
Villa Zaborra, sede del Museo del Volo
Il complesso di Villa Zaborra ha sicuramente origini medievali, come attesta la grande torre che ancora svetta sopra al centro del corpo di fabbrica, e costituiva uno dei centri del sistema difensivo approntato dalla famiglia Da Carrara, signori di Padova, negli anni ’30 del XIV secolo. Il sito, nei secoli successivi, conobbe diversi rimaneggiamenti ma arrivò alla definizione attuale quando la proprietà passò ai Conti Zaborra, con l’ampliamento, agli inizi del XVIII secolo, dell’edificio e l’ammodernamento dell’ala padronale, per adattarla a residenza signorile, e realizzando le barchesse a uso agricolo. La villa, infatti, è composta da due ali laterali. L’ala di sinistra è la barchessa realizzata nel 1795 ad opera di Paolo Zaborra, l’ala di destra, invece, più antica, dal 1680 fino al 1960, fu la vera e propria dimora dei Conti Zaborra e dei custodi. Sulla facciata si possono leggere due targhe in marmo che ricordano il famoso “Volo su Vienna”, compiuto da Gabriele d’Annunzio e dai piloti della 87° Squadriglia “Serenissima” il 9 agosto 1918. La villa è impreziosita anche da un sontuoso giardino con il brolo, la montagnola con la ghiacciaia, la peschiera e il parco con i labirinti. Dal 1970 una parte della villa è stata destinata ad accogliere i reperti che compongono il Museo del Volo, inaugurato nel 1980, che ripercorre l’intera storia del volo umano facendo perno sull’impresa dannunziana: a tale volo è dedicata la parte principale del museo con le stanze abitate dal poeta nel periodo 1917-1919.
Il Catajo di Battaglia Terme, sontuosa reggia autocelebrativa degli Obizzi
Il Catajo venne costruito tra il 1570 e 1573 per volere di Pio Enea I degli Obizzi, su un progetto di Andrea da Valle. Fu caratterizzato fin da subito dall’imponente fisionomia di una fortezza, anche se successivamente venne poi ampliato e trasformato, tra Sei e Settecento, nella magnifica reggia ducale degli Este, per passare poi agli Asburgo. Incerta è l’origine del nome, anche se è molto probabile che questo si leghi allo scavo del Canale Battaglia agli inizi del XIII secolo, il cui corso passa proprio davanti alla villa. Con “tajo” (taglio), infatti, veniva indicato lo scavo di un canale e il toponimo, probabilmente, passò dal luogo a quello che successivamente ne è diventato l’elemento più rappresentativo: il maestoso edificio degli Obizzi, appunto. Quello che è certo, invece, è che, se nella maggior parte degli esempi del territorio la villa assolve soprattutto il compito di centro dell’organizzazione del lavoro in campagna, nel caso del Catajo, invece, è la funzione di rappresentanza ad essere prevalente. Gli Obizzi, del resto, non appartenevano all’aristocrazia terriera, erano una famiglia di capitani di ventura. Il Catajo venne progettato come una grande scenografia della famiglia, in grado di stupire e intrattenere ospiti da tutta Europa con feste, balli e rappresentazioni teatrali. Allo scopo venne fatto costruire anche un piccolo teatro a sedici palchi, che di fatto fu uno delle prime strutture coperte, dedicate agli spettacoli del Veneto. Il lignaggio della famiglia, inoltre, è raccontato nel ciclo di affreschi che decora sei saloni della residenza (l’intero edificio è composto da 350 stanze) realizzato da Giambattista Zelotti, allievo di Paolo Veronese. In quaranta riquadri viene raccontata per immagini la saga della famiglia, con matrimoni, guerre e imprese eroiche, dando vita a uno tra i primi cicli di affreschi autocelebrativi del Nord Italia e tra i più importanti del Rinascimento in villa. Ma alla bellezza del Catajo oggi concorre anche la riapertura del parco. In origine dedicato solo agli alberi da frutto, nel 1600 fu modificato da Pio Enea II con l’introduzione di vasi di agrumi lungo i viali principali, di un bosco d’olmi, di un labirinto in bosso e di una peschiera rettangolare. L’impostazione attuale del parco, invece, risale al periodo tra ‘700 e ‘800, quando Tommaso, ultimo esponente degli Obizzi, esperto di botanica, tolse le siepi in bosso per sostituirle con un giardino botanico e piantò le magnolie, da poco introdotte in Europa.
La Mincana: dai Bragadin ai Dolfin fino ai Dal Martello
La testimonianza dell’insediamento di una famiglia veneziana a La Mincana risale al 1528, quando una certa Marietta, figlia di Pietro Bragadin e consorte di F. Bondumier, risulta possidente, presso la contrada di Carrara S. Giorgio, di: “una casa con cortivo, orto, brolo e altre comodità per comodo di stanziar quando si va in villa”. L’attuale fisionomia del complesso di edifici che compongono la villa, invece, va fatta risalire agli inizi del ‘700 quando i Dolfin, del ramo di Pantalon, ne divennero i nuovi proprietari. La famiglia era tra le più potenti della Venezia del tempo: uomini di fede e della diplomazia veneziana, che non badavano a spese. Dionisio Dolfin, patriarca di Aquileia, aveva fatto costruire nel 1721 una cappella gentilizia e negli stessi anni il fratello, l’ambasciatore in Polonia e a Vienna, Daniele III, fece rifare la barchessa, la foresteria, le scuderie e il giardino. Anche il figlio di Daniele, Andrea, ambasciatore in Francia, contribuì nel rendere La Mincana un vero e proprio luogo della delizia, incaricando l'architetto Giannantonio Selva di eseguire un giardino all'inglese nell'area del brolo meridionale, uno dei primi nel suo genere in Italia. L’ambasciatore frequentò poco la villa: partito per la corte di Luigi XVI nel 1780, furono poche le occasioni per venirci. Chi invece rimase qui per lunghi periodi fu la moglie, Giustina Gradenigo, non amata dal marito e privata anche dei due figli (Bianca e Zanetto risiedevano alla corte di Francia con il padre), sfogava qui la sua frustrazione. Lontana da Venezia, in quel giardino alla moda “romantica”, che al rigore delle geometrie dei giardini all’italiana sostituiva ruscelletti, grotte, cespugli, labirinti, Giustina poteva completamente perdersi, fantasticare, trovare una ragione per tutto quel dolore. Non per molto però. Alcune fonti, infatti, informano che anche quel rifugio verde le venne portato via da una tromba d’aria nel 1789, mentre, contestualmente, l’uragano della Rivoluzione Francese spazzò via la carriera diplomatica del marito, insieme all’Ancien Régime che la corte di re Luigi rappresentava. Con la morte dei figli, in circostanze mai chiarite, e dello stesso Andrea Dolfin, avvenuta neanche un decennio dopo, ebbe fine la dinastia del ramo di Pantalon e per La Mincana si aprì un secolo si spogliazioni e di progressivo degrado, fino agli inizi del ‘900 quando la villa venne acquistata dalla famiglia Dal Martello.